Bellezza, Bruttezza e Arte

1261823930<a

Il testo qui presente è il capitolo 1 della Tesi in Danza Terapia “Il Mito nel Corpo” presentata dal Dott. Gabriel Zoccola al Centro Toscano Danza Terapia, Firenze 2013.

Copertina: Paolo Troilo

1. ARTE ED ESTETICA: TRA BELLEZZA E BRUTTEZZA

Ciò che è specifico dell’essere umano non è lo spirito ma quella lacerata regione intermedia chiamata anima, regione in cui accade tutto ciò che di grave e di importante appartiene all’esistenza: l’amore e l’odio, il mito e la finzione, la speranza e il sogno; nulla di tutto questo è puro spirito, quanto piuttosto un violento miscuglio di idee e sangue. L’arte (cioè la poesia) sorge da questo confuso territorio e a causa della sua stessa confusione: Dio non ha bisogno dell’arte.

Ernesto Sabato. Saggio El desconocido de Vinci

Nel suo significato più sublime l’Arte comprende ogni attività umana creativa di espressione estetica, priva di uno o più pregiudizi da parte dell’artista che compie l’opera, rispetto alla propria situazione sociale, morale, culturale, etica e religiosa, che le masse del tempo stanno invece subendo. L’Arte indica, dunque, l’espressione estetica della propria interiorità e in questo senso non v’è concetto di bellezza. Nel contesto di Danza Movimento Terapia (DMT) l’espressione, l’apprendimento, la comprensione, la simbolizzazione e la transformazione corrispondono all’oggetto della produzione, è lo sviluppo della personalità, ciò che Jung chiama “individuazione ”, il processo centrale che la bellezza e la bruttezza aiutano ad evidenziare.

L’estetica, infatti nella Danza Terapia avrà importanza in quanto si tratta di un doppio movimento, di percezione e di produzione.

Il termine greco Aisthesis, difatti, indica le informazioni ricevute attraverso i sensi e il corpo, ed è da questo termine che Baumgarten dà origine al neologismo aesthetica. Aisthesis, dunque, come percezione o sensazione, legata all’inspirare, all’accogliere il mondo all’interno, è quel trattenere il fiato per la meraviglia, lo stupore e lo shock.

Ogni stimolo danza terapico ha lo scopo di rendere consapevoli i movimenti, partendo da quelli basici e vitali come il respiro. Provocare ispirazione, accogliere il mondo esterno e interno, e espirare, esalare l’anima, rendere l’anima come se fosse una propria produzione. Sono movimenti connessi al setting danza terapeutico.

L’estetica allora è in questo contesto riferibile al doppio movimento della dinamica respiratoria: all’inspirare, al percepire, al trattenere il fiato quando appare un’immagine significativa, e all’espirare, al dare forma, al produrre ed esteriorizzare l’invisibile, presentare e rappresentare, legata al continuum dell’anima e del mondo.

Nella fisiologia degli antichi greci e nella psicologia biblica, il cuore è l’organo della sensazione ed è anche il locus dell’immaginazione. Nel cuore e intorno al cuore è localizzato il senso comune, la cui funzione è l’apprensione delle immagini. La funzione del cuore è, dunque, estetica e l’immaginare non deve essere separato del percepire.

Scusate se insisto: che per risposta estetica non intendo affatto abbellimento. Non intendo piantare alberi e andare ai musei; non intendo modi raffinati, musica discreta in sottofondo, siepi ben potate: quell’accezione sterilizzata della parola “estetica” che l’ha privata di denti, lingua e dita. Bellezza, bruttezza e arte non sono né il contenuto esauriente dell’estetica né la sua base vera. Nell’accezione neoplatonica, la bellezza è semplicemente la manifestazione, l’ostensione dei fenomeni, il manifestarsi dell’anima mundi; non esistesse la bellezza, gli Dei, le virtù e le forme non potrebbero rivelarsi. La bellezza è una necessità epistemologica; l’aisthesis e il modo in cui noi conosciamo il mondo. È Afrodite, è la nudità delle cose mentre si mostrano all’immaginazione, l’unica tanto bella come lei, capace di generarli invidia è Psiche.

Il cuore e il respiro, insomma, sono entrambi funzioni vitali, che portano all’azione e all’operare. L’omissione parziale dell’azione è l’ispirazione trattenuta. La soffocazione totale è la morte. Di conseguenza il percepire il mistero diventa vita quando, dopo l’ispirazione trattenuta, porta alla forma, esala aria e odori. Esso parla dell’invisibile che si fa visibile come gratitudine alla vita, al divino, al numinoso presente nell’altro, negli uomini. Non è solo un movimento di gratitudine e adorazione verso il rivelarsi straordinario di un’immagine significativa, ma il suo inserimento e le sue conseguenze nell’ordinarietà. Si parla, dunque, di un movimento verso il mondo, verso gli uomini, verso la polis.

Durante un percorso di laboratorio DMT pretendere solo di “fare cose belle” rappresenta un inciampo, tale, da non permettere al materiale di fuoriuscire. Come una trappola dell’Io che, attraverso le emozioni e le congerie psicomotorie, rifiuta la regressione prelogica, evitando, così, di affrontare quel che non gli piace, quel che lo ostacola minacciosamente e che è sentito come un limite o una perdita. Differente, infatti, è essere aperti all’ostensione dei fenomeni, alla manifestazione, all’accadere della forma, all’incarnazione dell’immagine, a quel respiro estetico, che inala lo spirito degli dei ed esala una forma, a ciò che si percepisce e si manifesta. Si è, dunque, nel regno di Psiche e si deve poter dire, distinguendosi da Afrodite: “la bellezza non raccoglie nessun frutto dalla sua grazia”.

Se la bellezza è l’eterno che si manifesta nel tempo e l’esperienza della bellezza è di per sé intimamente precaria, così il sentimento di assoluta compiutezza, dato dal corpo nelle sculture e la danza, è allo stesso tempo l’inevitabile preludio del loro rovesciamento, perché l’eterno, proprio perché eterno, non dura nell’esistenza umana, figlia del tempo, e lascia inesorabilmente il passo alla caducità, che inclina alla morte e all’infinitamente brutto.

In una seduta di danzamovimentoterapia con il termine Arte dovrebbe essere inteso uno sprazzo di trascendenza, di trasformazione, del quale il Bello diviene metafora. Non ci si dovrebbe muovere più seguendo il riferimento delle “belle arti”, che seguono e compiono i canoni stabiliti, ma in funzione dell’essere presenti: senza di esso il corpo perde la sua densità, il suo peso, la sua forza, la sua potenza. Si parla, invece, di quella partecipazione di una parte nel tutto che la contiene, laddove sono rispettati gli opposti in compresenza e combinazione sensibile, dove il tempo si ferma in contemplazione e si genera la certezza di un dopo pieno d’azione e vitalità. È l’approssimarsi di una rivelazione imminente, come dice il poeta Jorge Luis Borges. Avvalendosi di ogni tecnica, è possibile, dunque, trovare una forma, una rappresentazione, ai contenuti che animano l’inconscio personale e collettivo.

L’estetica, Aesthesis, è una risposta a questa rivelazione. È la risposta di chi inspira o sospende il respiro davanti a una rappresentazione che lo colpisce. Bello e brutto possono essere considerati, dunque, come i parametri della morale dell’arte, e l’estetica è la condizione della ricerca.

Il motivo per cui sottolinea la necessità che le determinazioni ideali, del bello e del brutto, siano un’unità è perché ciò serve a distinguerli da ciò che il bello e il brutto divengono quando si mescolano con le azioni, con i corpi e con le cose sensibili, dove il bello e il brutto sono compresenti.

Attraverso la danza terapia si ha la possibilità di immergersi in un’attività artistica, poetica e tecnica, che non tenda a produrre arte ma immagine e simbolo. È un’attività che porta e conserva in sé, sin dall’origine, la possibilità di modificare, trasformare, generare, quel fare inutile e costitutivo dell’arte che, nel mondo greco, dà origine all’attività artistica. Artificio e genuinità, dunque, sono gli strumenti adoperati nel setting di danza terapia, per potersi aprire al Sé, dove il lavoro fondamentale ed essenziale diventa quello di riuscire a distinguere il materiale genuino, quello nascosto nell’apparato espressivo, che attraversa l’individuo, in parte velatamente, mediante il linguaggio corporeo.
Gli opposti, le polarità rimandano a una coppia, chiaro esempio di unità degli opposti: bellezza e bruttezza.

Poiché il bello è contrario del brutto, essi saranno due, e poiché sono due, ognuno di essi sarà un’unità .
Socrate

1.1 L’INDEFINIBILE BELLEZZA

La risposta estetica lega direttamente l’anima individuale
con l’anima del mondo; io sono minato dall’anima
del mondo come un animale.

James Hillman

La danzanterapia è volta a trovare, nel movimento, la rivelazione di una forma interiore, quel tentativo di dare una gestalt al mondo inconscio per riconoscerlo, simbolizzarlo, metterlo insieme, integrarlo alla consapevolezza: è l’accettazione delle nuove possibilità che il movimento offre. Tuttavia, in danza terapia, il movimento va spogliato, accade come nella creazione di una scultura: l’arte di levare dal corpo le resistenze dell’utente che appaiono in forma di movimento abituale e ripetizione. I personali criteri di bellezza e di bruttezza, quelli ricevuti dall’educazione familiare e sociale, danno sostegno alle resistenze e alla sicurezza, togliendo, in tal modo, la possibilità di veder accadere il nuovo e di far sorgere l’imprevedibile. Un’accurata conoscenza della storia della bellezza e della bruttezza, nella storia del movimento e della danza, può aiutare a evitare tale inganno. Si giunge, allora, alla bellezza come qualcosa che non ha definizione, essa sorge dal movimento spontaneo, in autentico legame col mondo interiore, con le immagini interiori, con le reverie, con le forme di un sogno danzato.

Per il filosofo greco Platone, l’idea del bello trova la sua rappresentazione attraverso l’arte, mentre la verità è espressa dalla scienza, valutate, dunque, entrambe sullo stesso piano. Platone, però, non accetta l’arte tra le discipline connesse all’educazione sociale, sostenendo che essa inciti la passione invece di disciplinarla. Inoltre, per il filosofo, l’arte, vista come tentativo d’imitazione della natura, ne è solo un’incompleta rappresentazione che non può tendere all’idea del bello.
La bellezza “solleva la mente ai valori permanenti e a verità eterne” come direbbe Platone, quindi, associata a Verità e Bontà, diventa l’oppio laico per i popoli, anestetizzante e forzata.

La bellezza, proprio perché concepita in modo così ingenuo, può essere tollerata soltanto se complicata da discordanze, da shock, da violenza e da dure realtà. Questo passaggio storico può facilmente trovare corrispondenza nei movimenti che portano gli utenti oggi nelle sedute di danzaterapia. Movimenti scomposti e sofferenti, riscontrabili oggi, anche nel linguaggio di base della danza contemporanea, imparati e appresi dalla cultura ed espressione del gruppo. Movimenti tanto finti e legati alla cultura, quanto sono artificiose le braccia tonde e i pliè ereditati dalla danza di corte rimasti nell’immaginario collettivo. Movimenti, dunque, che devono essere letti e ascoltati nel loro tentativo di nascondere ed esprimere.

Il filosofo Aristotele vede l’arte come un’imitazione della natura e, nella sua Poetica, ne evidenzia il rapporto, affermando come da tale attività l’uomo trae insegnamento e diletto. Per Aristotele la creazione dell’opera d’arte permette la materializzazione dell’idea e quindi la sua manifestazione; un’idea scaturita, però, esclusivamente, dalla mente dell’artista e che non può essere equiparata alla concezione platonica di bellezza assoluta.

Nel campo dell’arte pittorica un esempio chiaro di corpi permeati dalla bellezza neoplatonica è quello dato dalle opere di Botticelli, dove la bellezza si mostra incontaminata dai sentimenti e dalle emozioni, espressione, dunque, di purezza e nobiltà d’animo. Nella sala 10-14 della Galleria degli Uffizi – Firenze, collocata nella parte alta del Teatro mediceo, alle opere botticelliane, espressione dell’umanesimo neoplatonico, è affiancato il Trittico Portinari, del pittore fiammingo Hugo van der Goes, caratterizzato da criteri di bellezza molto differenti. La centralità delle figure femminili, nell’Italia del ‘400 legate a un’espressione estetica convenzionale, viene sostituita dai fiamminghi da presenze maschili e da corpi carichi di espressione, che mostrano, chiaramente, la propria età e i propri sentimenti. È, però, solo con l’arrivo di Leonardo che, nell’arte pittorica, giunge ad essere indagata ed è mostrata anche la psicologia dei personaggi rappresentati.

Di notevole rilevanza è la teoria dell’arte espressa dal filosofo Plotino, che ristabilisce il collegamento tra opera d’arte e regno delle idee. Egli suppone una visione interiore, già espressa anche da Platone, che permette all’artista di attingere da una forma ideale del bello per muoversi poi verso la rappresentazione materiale. Anche questo tentativo porta comunque al conflitto per cui la bellezza assoluta non può essere contaminata dalla materia dell’opera prodotta, evidenziando, ulteriormente, il valore negativo del procedimento artistico.

Con Plotino si tocca il mondo potente delle cose ordinarie: il grande enigma è che le cose ordinarie, l’objet trouvè, il collage di carta, i francobolli, possono rivelare il potere invisibile della bellezza. Un valido esempio può essere ritrovato nelle opere della pop-art, nella danza in spazi non-convenzionali, nel disordine. Plotino sostiene che è brutto tutto ciò che non è denominato da una forma. Il senso del mondo, il kosmos, l’universum, è, dunque, ordine opportuno, appropriata sistemazione e, nella morale, indica qualcosa di conveniente, quindi in opposizione al Kata kosmos, al disordinato.

Altre definizioni che possono aiutare a chiarire il concetto di bellezza sono forgiate dal soggettivismo e dall’oggettivismo. Il filosofo e storico scozzese David Hume, con la sua visione soggettivista, sostiene che “la bellezza sta negli occhi di chi l’osserva”. Gli oggettivisti, invece, affermano che “la bellezza sta nelle proprietà formali delle opere presenti lì, nell’oggetto: la composizione, il colore, la tensione, la risoluzione del conflitto interno”. La bellezza è, dunque, secondo queste modalità, ridotta a formalismi concettuali.

L’estetica illuminista trova nello scrittore Denis Diderot l’abbandono degli schemi idealistici, laddove il senso estetico e la bellezza diventano, invece, il frutto di un “rapporto” tra l’oggetto artistico e chi lo percepisce con la propria sensibilità individuale. In questo modo il termine estetico non è più legato all’oggetto in sé, ma indica il rapporto soggetto-oggetto. Tale rapporto ha delle tipologie estremamente variabili, pluralistiche, non prive di casualità. Sono perciò tali rapporti a fondare il bello in generale, mentre ogni singolo bel particolare, connesso a ogni oggetto artistico, non è riferibile ad alcuno degli schemi codificati di bellezza. Nel Traité du Beau, Diderot, precisa il suo pensiero sul concetto di bello con un’ulteriore relativizzazione, conferendo cioè una base filosofica all’estetica, lontana sia dal sensismo puro, sia dall’astrazione intellettualistica.

Il filosofo Immanuel Kant scrive, nel 1790, uno dei testi più importanti sull’estetica, La Critica del giudizio, dove l’estetica è limitata alla percezione sensoriale, della quale spazio e tempo sono condizioni irrinunciabili. Il biologo Adolf Portman afferma che la vita animale è biologicamente estetica, come le piume, le corna, i canti, tutto, dunque, è fine a se stesso, come l’arte, “non indirizzato” e quindi “non funzionale”. Come dice Kant si è di fronte a una “finalità senza fine”.

Se la vita in sé è biologicamente estetica, e se il cosmo in sé è primariamente un evento estetico, allora la bellezza non è semplicemente un accessorio culturale, una categoria filosofica, una prerogativa dello spirito umano. La bellezza è sempre rimasta indefinibile perché porta una testimonianza sensibile di ciò che, al di là dell’umana comprensione, è fondamentale. Non è, dunque, possibile trovare una definizione completa e compiuta della bellezza: essa è l’ineffabile, inafferrabile. È, dunque, in questo vuoto che diviene possibile esplorare la via della conoscenza di Sé, il “terminabile e l’interminabile” della DMT.

Nella mitologia greca bellezza è Afrodite, la dorata, colei che sorride, il cui sorriso rende il mondo piacevole e amabile e che, per invidia, castiga la sua rivale Psiche, inviandole Eros col compito di farla innamorare dell’orribile. Per Psiche il bello si distingue dell’orribile, ma l’importante è il manifestarsi, il portare la lampada al volto, il rendere visibile l’invisibile. Come un bambino davanti alla fiaba, che attende l’irruzione del personaggio, Psiche utilizza ogni via di espressione. L’immagine può essere resa visibile persino dal sintomo: il patologizzare, così chiamato dal filosofo e saggista James Hillman, diviene la messa in scena di una realtà nascosta.

L’espressione estetica sensibile ha, allora, come finalità, il rendere tangibile e cosciente una realtà dell’anima, laddove una parte insostituibile dell’identità si rende palese, un archetipo porta un indizio e si racconta come un mito.

Questa è la definizione di bellezza nel setting di danza terapia: è bello il racconto, ciò che si racconta. Ogni narrazione è, quindi, una trasformazione in potenza e la Bellezza è l’efficacia trasformativa di un racconto.

L’arte, può essere interamente considerata come un rito destinato a produrre dei simulacri magici. All’origine è sacra, e questo è particolarmente vero nelle arti primitive, indissociabile dalla ricerca di effetti magici. Più vicino a noi, ricordiamo che anche Picasso attribuiva alle sculture tribali una virtù purificatrice, valida anche presso gli Occidentali. Del resto, non ci piacerebbe pensare che le forme riconosciute come “belle” siano anche quelle che sono “magnificamente efficaci” per trasformarci?

1.2 LA REPRESSIONE DELLA BELLEZZA

L’effetto estetico
é l’imminenza di una rivelazione
che non arriva a prodursi.

Jorge Luis Borges

Nella danzaterapia, una tensione sostiene e accompagna la conduzione, un equilibrio sfida il conduttore: non lasciarsi ingannare dalla bellezza, e, allo stesso momento, non promuovere la sua repressione. La guida non è rivolta alla ricerca estetica, quando essa cerca di guadagnarsi l’accetazione sociale del gruppo o personle dell’utente, ma ad una verità, dunque, alla ricerca di un movimento che esprima, genuinamente, un’immagine presente nel mondo interiore dell’inconscio. Un movimento brutto, non nel senso di bruttezza contrario di bellezza, ma come un diamante non ripulito, senza sofisticazioni aggiuntive, senza elaborazioni che distraggano della sua essenziale natura. La ricerca dell’apparenza, nel contesto e nello spazio del setting DMT nel momento in cui si manifesta il diamante grezzo, è una trappola: è la risposta di difesa che l’utente utilizza nella sua quotidianità di fronte allo straordinario mondo invisibile, alla rivelazione del materiale che ora si svela attraverso il corpo. Ciò che è represso, dunque, e che torna nel corpo, ha importanza quanto un sintomo, una somatizzazione. Sono le forme che prendono origine dal materiale inconscio, un incarnarsi che si mostra, comunque, come una risposta estetica.
L’altro elemento legato alla tensione presente nella conduzione è, tuttavia, quello di non permettere la repressione della bellezza. L’espressione del numinoso genera anche esso un atto di difesa: questa è una realtà che spaventa, il volto di un dio o di un demone, che non può essere guardato in faccia senza morire, è chiamato bellezza per la rivelazione che significa.
Nel capitolo dedicato a La pratica della bellezza, nell’opera Politica della bellezza, James Hillman descrive gli elementi che separano un “abbellimento” dalla “funzione espressiva” ed elenca la condizione per sfuggire alla repressione della bellezza, che riporto qui come un decalogo indispensabile:

L’eliminazione della repressione non può avvenire direttamente, solamente facendo una cosa bella, abbellendo o realizzando quella che si crede essere la bellezza, direttamente con le proprie mani, con i propri corpi, con la propria voce. È proprio la stessa funzione repressiva, quella che nega, che rifiuta, a essere lo strumento da dover usare. Per prima cosa, l’Io stesso dovrebbe diventare bello, cioè toccato dalla bellezza: soltanto i simili possono influire sui simili, similia similibus curantur.

Per sfuggire alla repressione, dunque, bisogna muoversi in modo indiretto, laddove la via verso la bellezza significa, per l’Io, entrare in condizioni simili a quelle della bellezza.
La prima di queste condizioni è il piacere. Lo scrittore George Santayana definisce la bellezza come il “piacere oggettivato”, ossia, “il piacere considerato come qualità di una cosa”. Soggettivamente, il piacere è un’esperienza psicologica, mentre, oggettivamente è ciò che è chiamato bellezza. Il suo pensiero è mosso da Venere, non è apollineo, fondato sulle qualità formali come quelle dell’estetica classica, ma è piuttosto afroditico. Questo significa che la via verso la bellezza comincia dal piacere, infatti, il piacere motorio sarà uno degli oggettivi DMT, aprendo il corpo alla delizia e al gusto, ed eliminando il puritanesimo e la sua negazione del piacere.

La seconda via indiretta verso la bellezza deriva del concetto familiare che la bellezza arresta il moto. Davanti a un’opera bella, alla bellezza della natura, a una riuscita esecuzione, l’uomo trattiene il respiro, resta immobile. Nella pittura, l’arresto del movimento è stato per lungo tempo utilizzato, e un esempio si ritrova nell’Annunciazione, dove Maria è appunto sorpresa e sospesa. È, forse, per questo che le discipline Yoga e Zen provano a estendere la grazia del momento estetico.

L’immobilità, come un vaso cinese fermo / si muove continuamente nella sua immobilità. / Non l’immobilità del violino mentre la nota perdura, o la musica ascoltata così profondamente / che non è ascoltata affatto, ma tu sei la musica / mentre la musica dura.
Thomas Stearns Eliot

Per proseguire in questa ricerca è importante, poi, avere il coraggio di abbandonare l’ironia. L’ironia è il modo di ricorrere alla mente prima che ai sensi, è il letteralismo sentimentale, la dolcezza, la levigatezza priva di complessità, la superficie priva di profondità. Diventa essenziale, dunque, possedere il coraggio di aver paura. Se la bellezza ha a che fare con il nudo potere dell’immaginazione, con il divino potere di Venere e di Marte, allora è possibile che ci sia una paura mortale nel venire alle prese con il bello. Le difese nei confronti della bellezza sono, infatti, spesso difese verso la paura del suo potere.

Una terza via deriva da Plotino, che definisce la bruttezza come ciò per cui “l’anima rilutta e nega e se ne schernisce poiché non la sente in armonia con sé, ma quasi estranea”. Può, dunque, qualunque cosa alla quale ci rivolgiamo, diventare bella? L’arte di questo secolo, in particolar modo, segue Plotino e questa strada. Essa si rivolge alle maschere africane e alle sculture deformate negli anni venti, alle vecchie sedie, alle vecchie scarpe, alle macchine, all’acciaio arrugginito e alla plastica, a pezzi di carne morta e a corpi umani deformi, con un tale successo da non poter non immaginare questi materiali e questi oggetti come il focus dell’arte. Il pittore spagnolo Francisco Goya mostra immagini di orrore e di guerra, il francese Henri de Toulouse-Lautrec e il tedesco Otto Dix, portano rottami e i rifiuti della società, e il fotografo Robert Mapplethorpe si concentra su ciò che è sessualmente riprovevole. Art Brut è un termine coniato dal pittore Jean Dubuffet per descrivere le produzioni di coloro che non hanno cultura artistica, più tarde chiamata arte outsider. L’opera d’arte, dunque, consente ai distretti repressi del mondo e dell’anima di abbandonare la bruttezza e di entrare nella bellezza.

Bisogna, dunque, rischiare l’eccesso. William Blake, Paul Cèzanne, portano al limite, all’esagerazione, dunque, non alla ricerca di una bellezza idealizzata.

Non dimenticate gli Dei è il comandamento essenziale del mondo ellenico. Agli uomini non è richiesto di aver fede come ai cristiani, o di obbedire alla legge, come agli ebrei, agli uomini viene richiesto di non trascurare o dimenticare gli Dei. Forse questo significa che l’arte, come qualunque altra cosa l’uomo faccia, ricorda le potenze oltreumane e immortali, quelle che nell’antichità sono chiamate Dei. L’uomo, dunque, potrebbe liberare la bellezza dalla repressione, ancorando la mente a valori non umani, giacché, sicuramente il programma umanistico non basta. La proposta sociale e l’interesse politico, l’esplorazione dell’espressione di sé e lo sfruttamento intensivo dei materiali, la reazione delle scuole o dei movimenti, per non parlare della spinta alla fama, alla carriera e al denaro, non sono ancore soddisfacenti per l’intenzione della mente nella produzione d’arte. La bellezza non può entrare nell’arte se la mente è ancora ancorata all’opera: l’opera finita deve riflettere il sacro e l’esecuzione dell’opera, il rituale. È il carattere eternamente ripetitivo del rituale che può eliminare la repressione dalla bellezza: esso, infatti, sospende il movimento in avanti rispetto alla volontà e all’Io, verso uno scopo fisso, e si realizza come consacrazione alle potenze servite dal rituale.

1.3 L’INFINITAMENTE BRUTTO

Porque ese cielo azul que todos vemos
no es cielo, ni es azul.
Lastima grande que no sea verdad tanta belleza.

Lupercio Leonardo de Argensola
(1569-1613)

Brutto, nel suo significato originario, vuol dire sporco, in inglese spaventoso. Spesso il vissuto del corpo brutto è un vissuto soggettivo, che conduce a sentirsi sproporzionati rispetto alla realtà effettiva.

Il brutto, ciò che abitualmente riteniamo brutto, è la sensazione che sorge nel confronto con ciò che non è affatto infinito: la caducità, l’effimero, la faccia stessa della nostra fine, ciò che ci minaccia con la grande morte e l’insicurezza ontologica o le piccole morti come ogni separazione, la perdita degli oggetti investiti libidinalmente, la perdita dei limiti tra realtà e fantasia, lo sconvolgimento tra familiare e straneo, i sintomi e le malatie. È il mondo infero, l’ombra, la morte, l’angoscia davanti alla perdita e alla minaccia: è il perturbabile, il corpo malato e la psicosomatica.

In merito alla morte, lo psichiatra Donald Meltzer parla, in Amore e timore della bellezza, dell’esperienza estetica originaria e del “conflitto estetico” conseguente, affermando che “l’elemento tragico dell’esperienza estetica risiede non tanto nella sua fugacità, quanto nella qualità enigmatica dell’oggetto”. La sua esperienza centrale di sofferenza risiede nel dubbio, che tende alla sfiducia, inclina al sospetto. Si apre, dunque, un conflitto tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, prototipo del dubbio sulla verità delle apparenze e sulla sincerità dell’altro, che può far mancare il necessario senso di stabilità fino a subentrare in una pericolosa “insicurezza ontologica”.

Quando la sensibilità estetica è inibita, ed è inibita l’azione dell’Io immaginale, le immagini sfuggono, e con le immagini sfugge un reale rapporto “animato”, sia con il mondo interiore che con il mondo esterno.

Si tratta, dunque, anche di quell’angoscia di castrazione connessa alla capacità di accettare l’autonomia dell’inconscio, dei suoi spontanei processi trasformativi e dei modi per comprenderli e accompagnarli senza esserne travolti. È su quest’accettazione che si basa la possibilità di un confronto risanatore e non distruttivo.

Il brutto e l’animalità, inoltre, trovano espressione nell’aggressività e nell’ostilità presenti in alcuni dialoghi motori, nelle figure, nell’utilizzo dello spazio e i cambi di livelli, nelle immagini e nei sogni.

Lo scritto Il Perturbabile di Sigmund Freud, del 1919, prende come asse il racconto di Ernst Hoffman L’uomo della sabbia, proponendosi di isolare il nucleo del perturbabile. Freud afferma che il perturbante appare quando complessi infantili repressi sono rianimati da un’impressione esterna o quando convinzioni primitive superate trovano una nuova conferma. Il perturbante è inteso come lo spaventoso che affetta le cose familiari e da tempo conosciute. Elementi familiari repressi che ritornano trasformati in qualcosa di strano, in qualcosa di perturbante. Freud sostiene che il perturbante accade frequentemente e facilmente, quando svanisce il limite tra la fantasia e la realtà, quando ciò che si ritiene fantastico appare davanti ai propri occhi come reale, quando un simbolo assume il luogo e l’importanza di ciò che simbolizza. Ogni fattore rimanda allo stato del narcisismo primario che la repressione trasforma come estraneo; è il momento in cui il bambino stabilisce con la madre un rapporto di assoluta dipendenza, dove non c’è differenza tra l’Io e il non Io, dove il primo doppio del bambino si trova nella figura della madre ed è rassicurante per la sopravvivenza. Una volta superato il narcisismo primario, il doppio si colloca in tutto quello che rimanda al narcisismo, invertendo il senso e tramutandosi da rassicurante a perturbante messaggero di morte.

Il carattere perturbante del doppio ubbidisce al rimando di epoche psichiche primitive, nello stato di fusione mancano le difese e la sicurezza si rinforza attraverso un mondo immaginario onnipotente. L’animismo, la magia, l’incantesimo, l’onnipotenza di pensiero, l’atteggiamento di fronte alla morte, le ripetizioni e il complesso di castrazione possono rianimare complessi infantili repressi. Si potrebbe dire che le cose sono belle, o assumono un valore particolare, non per quello che si vede in esse, ma per ciò che non si vede, ciò che manca, ciò che è velato, che si nasconde al di là e che non si manifesta. Attraverso il movimento creativo lo stato di coscienza permette di rendere noto ciò che era occulto, di rendere formale ciò che era amorfo, di mettere in luce i segreti, e siamo qundi in un terreno “perturbante”. Freud prende la definizione del filosofo Friedrich Schelling come matrice del problema: “Si chiama perturbante tutto ciò che, essendo destinato a rimanere nel segreto, occulto, è uscito alla luce”.
Il perturbante non è qualcosa di nuovo o estraneo, ma qualcosa di familiare e antico, legato alla vita animica, e divenuto estraneo solo perché rimosso. E ancora una volta è necessario ricorrere alla bellezza per sopportare e supportare. Jacques Lacan sostiene che l’ultima barriera che protegge un soggetto dal confronto con la pulsione di morte è il bello, quel bello accecante che nasconde. Quando ciò che è nascosto appare, l’uomo si trova in contatto con il sentimento del perturbante. Lacan, partendo dal concetto di perturbante, trova in Freud le tracce dell’angoscia, sostenendo che manca il mancante, vale a dire si fa presente ciò che dovrebbe mancare e questo provoca angoscia.

È d’obbligo allora collegarsi al filosofo tedesco Martin Heidegger, il quale sostiene che nell’angoscia non c’è nessun oggetto o entità determinata che la produca: “la minaccia è in nessuna parte”. Questo significa che il nulla si fa presente e che nell’angoscia è gettata la singolarità dell’uomo, laddove la sua esistenza può essere impugnata in modo proprio. Messa in gioco la singolarità, ciò che angoscia è il mondo che appare tale. Questo significa che il nulla si rende presente nell’angoscia, non senza oggetti, ma in oggetti privi di significazione. Lo stesso afferma Lacan, che parte da un mondo con oggetti privi di significazione, ai quali è dato senso grazie ad un ordine simbolico, ai significanti. La significazione avviene, dunque, a causa di quell’oggetto velato, perso, prodotto dalla costituzione soggettiva. Quindi, ciò che deve essere velato, che deve mancare si fa presente e con esso appare l’angoscia. Se tale oggetto non si rende presente, fortifica e dà identità. L’oggetto diviene allora causa del desiderio, dunque un oggetto bifronte che, apparendo, conduce fuori l’immagine. Svelata e resa reale la sua presenza, scoppia il contagio della scena con la quale il soggetto si sostiene. Si trovano quindi, in congiunzione heim e unheim, ciò che è familiare e ciò che è estraneo e, nella casa dell’uomo, un’altra presenza inizia a comandare.

Carl Gustav Jung parla di mostruosità a proposito dell’archetipo dell’ermafrodito, uno stato dell’essere del tutto innaturale che suscita orrore e repulsione: è una minaccia all’ordine stabilito che deve essere spazzata via. Eppure, la stessa parola mostro, dal latino monstrare, indica una manifestazione del divino: la totalità del Sé in tutta la sua pienezza si trova inconcepibile, mostruosa.

Gli stili, gli interessi, gli amori, il lavoro, l’uso del denaro portano in sé le nostre trame patologizzate, il sintomo e la malattia.

“È pazzo”, “è matto”, “è troppo strano”, sono frasi che utilizziamo nella vita quotidiana, riferite a un altro con l’illusione di espellere i sintomi bizzarri che ci offrono una diversa prospettiva della nostra normalità.

Prendendo in considerazione la bruttezza del corpo, o le patologie della bellezza come l’anoressia, la bulimia, l’obesità, ci troviamo di fronte alla sensazione di un grave tradimento: quello di non amarsi. Uno dei desideri basilari dell’esistenza è, infatti, quello di piacersi: l’autostima passa anche attraverso l’accettazione e la soddisfazione per il proprio corpo. In queste situazioni si perdono i parametri di rapporto col proprio corpo e si alterano l’immagine e lo schema corporeo, per cui il proprio corpo sembra sempre inadeguato rispetto alla realtà.

Il corpo dell’anoressica materializza la bruttura, il mostro della persona che vive scissa tra materia “diabolica” e spirito “divino”. In questi casi si è dinanzi ad un vissuto autodistruttivo, al presentarsi all’altro in modo da garantirsi un rifiuto, identificandosi con l’Ombra.

Nel campo nevrotico, i corpi protetti da una corazza muscolare, guadagnata in palestra anabolicamente, allontanano, proprio attraverso la muscolatura, gli altri, alla ricerca, isterica, di corpi più belli e al contempo più rigidi e con minore possibilità di consapevolezza di sé e capacità di avere rapporti genuini, tra Sé e Sé, dunque, in una maniera dinamica, danzata. L’inflazione narcisistica dell’Io corrisponde alla corazza caratteriale che si sviluppa, come Patroclo, che indossa l’armatura di un dio e si allontana dagli altri e da sé.

Molto sinteticamente possiamo ipotizzare tre livelli di patologia. Un primo livello riguarda un’alterazione della percezione corporea: alterazioni più o meno gravi e che si riscontrano in varie psiconevrosi e nella depressione. Questa errata percezione corporea è spesso legata a fattori conflittuali. Un secondo livello è l’associazione con una concomitante alterazione dell’immagine corporea che nei casi più gravi può giungere fino a livelli di dispercezione delirante (l’anoressia psicogena). Un terzo livello riguarda una frammentazione, più che un’alterazione dell’immagine corporea fino a giungere a un dissolvimento dei confini dell’Io: è quanto osserviamo nelle psicosi schizofreniche.

Nell’ambito del lavoro di DMT, l’infinitamente brutto, ciò che sarà “sempre” brutto e inaccettabile, estraneo, il perturbabile, l’animalità, il doppio, l’ombra e ogni immagine del mondo infero, è un richiamo a integrare, un richiamare alla profondità e ad abitare il regno di Psiche. Dove c’è il brutto e la paura c’è panico, c’è Pan, con la sua strana coda e le orecchie allungate, il suo odore caprino e l’aspetto selvaggio, l’unico che salva Psiche dalla morte, relativizzando la sua bruttezza e rendendola più accettabile.

1.4 L’ACCETTAZIONE DELLA BRUTTEZZA

La tensione tra gli opposti, bello e brutto, è l’aesthesis, l’inspirazione e l’espirazione produttiva, Afrodite e Psiche, che conducono tutti al non lasciarsi prendere dalla maschera della bellezza e ad evitare al contempo la sua repressione. È a questo scopo che le opere d’arte, le sculture, possono aprire uno spazio e una modalità, divenendo un oggetto-stimolo per l’esplorazione nel setting DMT. Decisamente interessante è il trattamento rivolto alla bruttezza, storicamente negata, ma presente da sempre nelle produzioni degli artisti. È solo alla metà dell’Ottocento, dunque in un’epoca vicina, che risalgono i primi discorsi organici sul brutto, anche se, di fatto, è nella Storia della Bruttezza di Umberto Eco, che viene offerta una trattazione organica e, per certi versi, esaustiva, in merito al suo evolversi nella civiltà occidentale. Le opere d’arte hanno una propria funzione per l’accettazione di ogni realtà: esse permettono che il brutto accada quando l’individuo si predispone a “lasciare che accada”, senza dar conto alle scuole o alle correnti stilistiche. È allora che, attraverso la suggestione e la proiezione, l’arte può aiutare ad accettare ciò che si rifiuta o si evita, dando corpo alla proiezione come una scultura dalla quale si può prende distanza per osservare, riconoscere e accettare. La via regia per l’accettazione della bruttezza ovviamente non è la parola ma la rappresentazione non verbale, il corpo, il movimento, per aprire, per comunicare e contemplare, per non rimanere nella trappola razionalistica dell’iper-riflessione, togliendo cioè la carica di libido che si dà al problema, lasciando entrare uno sguardo creativo che renda possibile il risveglio delle risorse e le potenze attivandole, modificando lo spazio interno e quello esterno come ad esempio, il confinamento ospedaliero o il carcere. Il corpo è un principio di realtà ineludibile, che porta ad accettare la realtà così com’è, e intuire la realtà trascendente, laddove l’individuazione deve ancora accadere. È la Bruttezza che può, quindi, divenire una porta verso la profondità, e la Bellezza mostrarsi come qualcosa di non assoluto ma resa integra e arricchita dalla potenza data dagli opposti.

1.5 FUNZIONI GENERALI DELL’OPERA D’ARTE

Bellezza e bruttezza, indistintamente validi, sono immagine, forma e rappresentazione che facilitano quelle dinamiche simili al sogno, come la sintesi e la condensazione, quelle liberatorie, come la catarsi, quelle comunicative e plastiche, o quelle più appellative e scomode di esplorazione, di dubbio, di risposta e soluzione. Dunque l’opera d’arte, diviene portatrice di differenti funzioni come:

• La suggestione: il filosofo francese Paul Souriau dice che l’opera d’arte ha una capacità ipnotica e suggestionante, essa cattura e immobilizza l’attenzione. È soprattutto il ritmo, come eccitazione monotona e continua, ad avere un effetto ipnotico. Con la pittura o la scultura si trova un ritmo nella ripetizione, nel tornare con lo sguardo diverse volte su quello che ha catturato la propria attenzione.

L’oggetto dell’arte è addormentare le potenze attive, resistenti della nostra personalità, e condurci verso uno stato di docilità perfetta, nelle quali siamo capaci di realizzare l’idea che ci viene suggerita, nella quale simpatizziamo col sentimento.
Henri Bergson

È questo uno dei motivi per cui all’arte è attribuito un carattere terapeutico di primo ordine. Essa suggerisce senza imporre, contribuisce a modificare condotte in modo spontaneo, fa nascere la decisione in se stessi. La sublimazione aiuta a intuire le realtà trascendenti, ma aiuta anche ad accettare la realtà cosi com’è, anche quella dolorosa, addolcendola e trasfigurandola. Aiuta a vedere gli aspetti sottili, che sfuggono allo sguardo superficiale e abituale della visione fotografica e fredda. Aiuta il malato a uscire della clausura psichica del suo problema o del confinamento ospedaliero. Diventa importante, infatti, riempire di bellezza le stanze dei malati, psichici o fisici, una bellezza architettonica e domestica che aiuti gli psicotici a uscire dell’isolamento autistico, o ad esempio, i nevrotici, a superare le ossessioni e le fobie.

• Potere di proiezione: nell’opera d’arte l’uomo proietta i propri sentimenti e conflitti, in essa sono presenti quelli dell’autore e quelli appartenenti a chi guarda o ascolta. Questa proiezione di conflitti e sentimenti è comune al sogno: l’inconscio, infatti, ha grande rilevanza tanto nella creazione quanto nella contemplazione. La comunicazione e la trasmissione, tra il creatore e il contemplatore, sembrano essere prodotte nella zona conscia, o nell’inconscio collettivo. Nella malattia la problematica si proietta nella produzione. Nella schizofrenia, ad esempio, questo è evidente in quelle rappresentazioni plastiche e nei disegni patognomonici facilmente identificabili ad esempio in quei disegni di “membra fantasma” eseguite da chi ha subito, e non accettato, l’amputazione di un arto.

• Rapporto arte-sogno: in entrambi i casi si tratta di associazioni inconsce, che, come afferma Odier, hanno una differenza.

“Il sogno esprime i desideri non risolti, i conflitti, ciò spiega il carattere penoso del sogno. L’opera d’arte continua a essere sempre un gaudio”.
Odier

• Realizzazione immaginaria dei desideri inconsci: anche questa caratteristica è condivisa con il sogno, ma il suo svolgimento è diverso. L’opera d’arte diviene, infatti, un sogno fissato ed è una soddisfazione maggiormente positiva.

• Tentativo di sintesi o di condensazione: è una legge del sogno. Nello stesso momento si condensano, in una visione o in una melodia, diverse realtà da quella proposta simbolica, che dipende dalle proprie esperienze personali. La percezione di un simbolo o un’opera è sempre qualcosa di molto personale e intrasferibile, ossia inesprimibile a parole in modo completo.

• Tentativo di soluzione: ognuno cerca nell’arte ciò che gli manca. Questo è il principio di ogni arte terapia ed è richiesto alla personalizzazione di ogni terapia.

• Funzione di catarsi: l’opera d’arte per il creatore e per il contemplatore ha la funzione di scarico del potenziale affettivo, che si accumula eccessivamente nelle tendenze represse. L’arte può essere un sollievo per queste tensioni. Esistono tendenze represse nell’inconscio che possono affiorare alla coscienza solo se lavorate attraverso le trasposizioni e le simbolizzazioni, mediante quei trucchi che evitano il senso di colpa. Questo è particolarmente importante nei nevrotici. È di grande utilità, infatti, provocare lo scarico delle tensioni accumulate in eccesso, e l’arte è la via più accettata, perché essa non è diretta e quindi non conduce a sentimenti di colpa.

• Capacita di liberazione: Jung rileva, nella proiezione della propria sensibilità sull’oggetto, un movimento di estroversione, causa liberatoria dell’arte. Baudouin, studioso della psicologia dell’arte, afferma: “L’arte è molto di più che una semplice catarsi: è un mezzo di espressione”. Il termine espressione contiene, dunque, il termine catarsi e va oltre; esso segnala una comunicazione col prossimo.

• Funzione comunicativa: tra gli elementi connessi alla comunicazione possono essere distinti alcuni punti:

a) soggetto comunicatore
b) messaggio da comunicare
c) messaggio codificato
d) trasmettitore
e) soggetto ricettore
f) risposta

Niente di tutto questo succede nel processo di comunicazione estetica. L’artista non comincia con un messaggio da trasmettere, ciò che dà origine al processo creativo è un impulso, un’intuizione, a volte un’immagine senza corpo, un’idea germinale che ha potere di crescere. Un percorso questo diametralmente opposto a quello della comunicazione. L’atto di comunicazione estetica risiede precisamente nel processo di crescita e questo è fondamentalmente diverso dall’atto di scegliere dei segnali adeguati al messaggio che in precedenza si è deciso di trasmettere. Infatti, quando un artista sceglie il processo di comunicazione invece di quello creativo, accade che la sua opera si converta in non-artistica.
Cosa si trasmette allora in un’opera d’arte? L’artista proietta i complessi e i propri desideri, in modo inconscio, così come lo stesso contemplatore. Dice Freud: “La psicanalisi può dimostrare senza sforzo, nel godimento artistico, una partecipazione latente della liberazione degli istinti”.
L’opera d’arte trasmette più di quanto si pensi, un bagaglio conscio, inconscio e subconscio, ma anche meno, poiché i complessi e i desideri dell’artista non coincidono con quelli dello spettatore. L’artista, come il malato mentale, scarica nella propria produzione l’Io profondo, ma egli inganna se stesso se pensa di esprimere tutto in modo pienamente comprensibile agli altri. Per questa ragione occorre interpretare l’opera di un malato mentale tenendo presente la sua storia clinica. Ciò nonostante, non tutto quel che esprime un’opera d’arte è a livello subconscio. Ci sono dei contenuti pienamente consci, anche nelle produzioni degli schizofrenici, dove non c’è intenzione comunicativa giacché essi sono intransitivi, ma comunicano ugualmente.

• Linguaggio plastico: dopo quanto detto, si può affermare che l’arte è un linguaggio plastico o sonoro, pre-verbale, a-logico (Masserman), nel quale predomina l’emozione sull’intellettualità. È, quindi, la via indicata in assenza di capacità di espressione verbale. Il malato mentale, infatti, si esprime più facilmente con il linguaggio pre-verbale. Questo a volte è l’unico modo di espressione.

• Processo di esplorazione: l’arte intesa come processo di esplorazione è curativa. Nel processo di comunicazione, il messaggio si trasmette da persona a persona, in una sola direzione se non c’è risposta, o in due se la risposta è adeguata alle attese dei dialoganti. Nel processo di creazione estetica il messaggio circola sempre in due direzioni, da una parte quella della persona verso l’opera d’arte e dall’altra quella dell’opera d’arte verso la persona. Il processo creativo consiste nell’esplorazione di nuove possibilità di sentire. In un certo senso, l’arte è un sostituto del rapporto umano emozionale – affettivo, importante quando manca l’umano e per potenziare, abbellire e dare profondità a una relazione affettiva. Ogni arte è la creazione di forme percettibili, espressione di emozioni e di sentimenti umani.

• Interpellare e rispondere: l’arte è un fenomeno sociale d’interpellazione e di risposta. Essa favorisce i processi d’Individualizzazione e di socializzazione. L’arte è un mezzo di fraternità fra gli uomini, li unisce in uno stesso sentimento, quindi è indispensabile per la vita dell’umanità e il suo progredire nella via della felicità. (Tolstoi).

• Funzione di sintesi dell’Io: avviene mediante il restauro delle parti dissociate della personalità. In questo senso, l’arte fa percettivamente ciò che la psicanalisi fa cognitivamente.

L’autentico potere dell’arte deve, dunque, ancora scoprirsi, come afferma il compositore Bach “La vera musica possiamo solo presentirla”. Gli uomini, infatti, da sempre, sentono i benefici della musica, un fattore questo tanto complesso da rendere difficile decifrare, esaustivamente, la causa di un fatto tanto evidente. L’arte è, senza dubbio, la medicina preventiva che l’essere umano ha sempre utilizzato. Riguardo alla pittura e alla scultura Schelling crede che esse forniscano un legame attivo (in termini junghiani una funzione mediatrice) fra l’anima e la natura, un’infusione dello spirituale nel materiale.

L’artista deve afferrare lo spirito essenziale, istintivo della natura, “lavorando al cuore delle cose e parlando attraverso segni e forme come fossero soltanto simboli”, realizzando idee precedentemente oscure e incomprensibili autonomamente, attraverso il proprio genio unico. In questo modo si “romanticizza il mondo”, modellando ciascun oggetto come se fosse il portatore di qualche significato superiore, il culmine di una ricerca, un altare a un Dio nascosto. Ciascun oggetto diviene così simbolo all’interno di un tutto simbolico.

In generale le opere d’arte condividono queste funzioni, e quindi si può forse affermare che, ad esempio, la pittura, può essere considerata il medium per lavorare in combinazione con la danza. Tuttavia la scultura ha delle caratteristiche particolari, che la rendono più adeguata al legame e all’abbinamento con la danza. Evidentemente la scultura e la danza mostrano il corpo come opposti complementari: statico-dinamico, quiete-movimento, effimero-eterno, flessibile-rigido, solve et coagula. L’estetica della dinamica e la vertigine si accompagnano qui all’idea di un’immobilità estrema. La scultura ha, inoltre, in sé la terza dimensione, l’emozione del corpo; essa, nel profondo, genera un rapporto più immediato e rende possibile la capacità di simbolizzare attraverso il corpo. La danza e la scultura danno corpo alle immagini che altrimenti rimarrebbero inafferrabili e incondivisibili. Questo fa capire l’importanza del movimento per apprendere il corpo reale, attraversato dal suo discorso, dal suo zelo simbolico. Bisogna, però, ricordare che ciò che mobilita è ciò che sfugge al simbolo e al discorso. Sono le muse ispiratrici. Secondo Lacan, infatti, esiste una parte del reale del corpo che resta impossibile da simbolizzare:

Un uomo cerca una donna a titolo – ciò vi sembrerà curioso – di ciò che si pone solo via il discorso, perché, se quel che affermo è vero, cioè che la donna n’est pas-toute, c’è sempre qualcosa in lei che sfugge al discorso.

In sintesi, l’atteggiamento estetico può essere compreso come gli altri quattro atteggiamenti culturali del Sé superiore, cioè come una particolare forma dell’immaginazione. Le funzioni del Sé culturale comprendono i quattro atteggiamenti fondamentali di Henderson: estetico, religioso, filosofico, sociale, ma anche un centrale ed emergente atteggiamento psicologico autoriflessivo. Gli atteggiamenti culturali sono innati. Per esempio tutti i bambini, se si dà loro la minima possibilità, esprimono le proprie fantasie attraverso la danza, il canto, il disegno, la creta. Allo stesso modo parlano delle proprie paure dell’ignoto, inventando angeli, fantasmi e abitanti della notte. Essi, anche i più piccoli, hanno dei rituali per addormentarsi, per passare dal mondo diurno a quello notturno, un’espressione, dunque, dell’immaginazione filosofica, fatta di domande e spiegazioni sull’ordine dell’universo.

La danza terapia, alla luce di quanto detto, può, dunque, restituire a Psiche il luogo del bello e del brutto, consegnando all’immagine estetica il valore di un linguaggio privilegiato di conoscenza, attraverso il ritorno al linguaggio dei miti e degli dei, piuttosto che entrando in sistemi unicamente concettuali. Il bello e il brutto, dunque, sono intesi come elementi presenti e integrati nei giochi, nella fiaba, nella danza e nella scultura, materiale di espressione degli dei, dove il daimon, quindi, non è legato all’etica, ma ha estetica: vuole solo far respirare le immagini.

I commenti sono chiusi.

Crea un sito web o un blog su WordPress.com

Su ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: