
sintomo e cura
Comincerò dalla medicina, per fare onore alla mia arte. La natura dei corpi comporta un duplice amore. Ciò che è sano nel corpo è ben diverso e dissimile da ciò che è malato, questo lo ammettono tutti. Ora, il dissimile ama e desidera il dissimile: l’amore che è proprio della parte sana è dunque diverso dall’amore che proprio della parte malata. Dunque, proprio come Pausania diceva che è cosa bella accordare i propri favori agli uomini che se lo meritano ed è cosa brutta cedere ai dissoluti, così quando si tratta dei corpi stessi favorire ciò che vi è di buono e di sano in ciascuno è cosa bella e necessaria, ed è questo che chiamiamo medicina, mentre bisogna rifiutarsi di favorire ciò che è malvagio e malsano, se si vogliono seguire le regole dell’arte. La medicina infatti, se vogliamo definirla in una parola, è la scienza dei fenomeni d’amore propri dei corpi, nei loro rapporti con il riempirsi e il vuotarsi, e chi da questi fenomeni sa diagnosticare il buono e il cattivo amore, ebbene questi è il miglior medico. Chi sa operare dei cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell’altro; chi sa far nascere l’amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando è di troppo; ebbene costui è davvero padrone di quest’arte. Senza alcun dubbio. Il medico deve essere capace di ristabilire l’amicizia e il mutuo amore tra gli elementi del corpo che più si odiano. Ora, gli elementi che più si odiano sono quelli contrari: il freddo e il caldo, l’amaro e il dolce, il secco e l’umido, e così via. È per avere saputo mettere l’amore e la concordia tra questi elementi che il nostro antico padre Asclepio – a quel che dicono i nostri poeti, e io lo credo – è il fondatore della nostra arte. La medicina è dunque, come dicevo, tutta quanta governata da questo dio. E questo vale anche per la ginnastica e per l’agricoltura. Quanto alla musica, non occorre una grande riflessione per vedere che è la stessa cosa. Senza dubbio è questo che vuol dire Eraclito, benché la sua espressione non sia felice. Egli dichiara infatti che “l’uno in sé discorde con se stesso si accorda, come l’armonia dell’arco e della lira.
Platone. Simposio
Il sintomo e il linguaggio corporeo
Il sintomo è un modo corporeo, un modo organico di esprimere le immagini interne non espresse o represse: è un’iscrizione nel corpo, l’espressione letterale dell’immaginario. L’immaginario, psiche, prende forma nei sogni, nei lapsus, nella creazione estetica, in modo dinamico, metaforico, poetico, o nel sintomo in maniera concreta, fissa e letterale.
Il termine sintomo deriva dal greco σύμπτωμα, costituito dal suffisso syn, evenienza, circostanza, che a sua volta deriva da συμπιπτω, piptein, cadere con, cadere assieme. Il sintomo, infatti, non è mai un’entità fenomenica unica, ma l’effetto finale, non standardizzato, di un convergere di molteplici azioni e reazioni. Esso indica un’alterazione della sensazione di sé e del proprio corpo in relazione ad uno stato patologico, riferito dal paziente. Si differenzia sia dal segno, che è invece un riscontro patologico individuato dal medico all’esame obiettivo del paziente stesso, sia dal reperto di laboratorio, che coinvolge accertamenti clinici del laboratorio di analisi.
Il linguaggio non verbale e la corporeità assumono una grande importanza nella comunicazione ed è, infatti, dimostrabile statisticamente che la comprensione dei messaggi in un dialogo dipende per il 7% dalle parole, per il 38% dal tono della voce e per il 55% dalla gestualità. La comunicazione non verbale ha, inoltre, un’origine biologica, presumibilmente sviluppatasi per consentire la sopravvivenza, ed è mediata per lo più dalle strutture cerebrali più antiche. È, dunque, una forma di comunicazione innata e, per una certa parte, sottoposta agli schemi dell’apprendimento.
Il linguaggio non verbale si serve di segni e simboli, laddove il segno esprime sempre qualcosa in meno rispetto al concetto da esso rappresentato, mentre il simbolo rappresenta qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato. Per la medicina, ad esempio, sono proprio il segno e il sintomo a esprimere il morbo, e dunque, anche il sintomo, insieme a elementi quali l’azione, il movimento e la danza, diviene parte del linguaggio corporeo. Qualora il sintomo non venga, infatti, descritto insieme a tutte le altre espressioni del linguaggio, può divenire facile cadere in quella trappola in cui sia la cultura, sia la religione cercano di incastonare il corpo, legando e riducendo la sua stessa espressione alla buona azione, al movimento giusto e alla bella danza, tre concetti che sono parte della triade Verità, Bontà e Bellezza.
A questo proposito è interessante notare come i greci, con Pan, recitino il credo di un Dio e di un sintomo, o come il cristianesimo si basi sul culto per un dio sconfitto, o ancora come l’arte contemporanea porti in scena, in modo privilegiato, il corpo come espressione della sconfitta, un corpo che impressiona e che lo sguardo rifiuta, come accade dinanzi alla nascita di Pan o alla morte di Cristo. Sembra, dunque, che la danza contemporanea cerchi di confinare l’inaccettabile sul palcoscenico, per apprenderlo o per svuotarlo della sua potenza: la danza, come in un culto, dunque, è usata come vittima sacrificale. La danza contemporanea viene a ricordare nel discorso culturale l’importanza del sintomo, e il bisogno di integrazione di ogni ferita e vulnerabilità.
Il sintomo fa il percorso opposto alla danza: mentre il movimento creativo della danza, partendo dal contatto con l’anima, cerca la forma, il sintomo va dalla forma espressiva al profondo, alla motivazione che gli dà origine, all’anima.
Furono i sintomi e non i terapeuti, a portare questo secolo fino all’anima. Le ostinate patologizzazioni di Freud e di Jung e dei loro pazienti – patologizzazioni che non accettavano di essere rimosse, trasformate o curate, o anche solo capite – guidarono i principali esploratori della psiche sempre più nel profondo. Il percorso che attraverso la patologia li condusse all’anima è un’esperienza che si ripete in ciascuno di noi. Abbiamo un debito immenso verso i nostri sintomi. L’anima può esistere senza i suoi terapeuti, ma non senza le sue afflizioni.[2]
È nel sintomo, dunque, che la Psiche richiama all’approfondimento, alla ricerca di un professionista che si prenda cura dell’anima, dell’invisibile, di quello spirito e animale assetato d’immagine.
In fondo, se sappiamo da Freud che “l’inconscio è strutturato come un linguaggio” è aggiunto da Lacan che
L’io è strutturato esattamente come un sintomo. Non è altro che un sintomo privilegiato all’interno del soggetto. È il sintomo umano per eccellenza, la malattia mentale dell’uomo[3].
Nel 1958 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce lo stato di salute “non come semplice assenza di malattia, ma come uno stato di benessere fisico, mentale e sociale”. Tale definizione implica l’integrazione di due aspetti della salute, quello biomedico e quello sociale. Il primo è orientato ai fondamenti biologici, molecolari e genetici delle malattie, il secondo utilizza strumenti derivati dalle discipline sociali, psicologiche ed economiche, per la determinazione accurata di fenomeni compositi.[4]
È evidente, proprio da questa definizione, il superamento del modello medico tradizionale di salute ed è partendo da questo approccio che si tenta di definire le modalità e le procedure terapeutiche utilizzabili sinergicamente nella presa in carico di persone affette da patologie croniche ed invalidanti come la sclerosi multipla o i diversi tipi di paralisi midollari. Seguendo questo’ottica si vuole, dunque, entrare in un processo di costruzione della salute concepito come massimo grado di benessere raggiungibile da un individuo, all’interno di un sistema in cui la salute e la malattia sono concepite non come due dimensioni parallele, ma come un continuum influenzato dal rapporto mente-corpo.
Ogni individuo può crescere ed evolvere verso una vita piena e in espansione nella misura in cui la realtà biologica, sociale e soprattutto relazionale, non lo costringano ad allontanarsi dalla propria integrità, da una sorta di armonia ed equilibrio dati dal contatto con la sua esperienza organismica, dalla possibilità di vivere, autenticamente e con livelli adeguati di consapevolezza, quello che momento per momento accade e sente fuori e dentro di sé.
Rogers, 1983
Il nucleo costitutivo di una proposta terapeutica risiede nell’intenzionalità con la quale questa è effettuata. La parola therapeia, infatti, vuol dire assisto, curo. Tèraps è l’aiutante, il compagno. La radice greca ther-thar, poi, è ancora più carica di significato, è legata al termine servitore e a dhar, cioè tenere, sostenere.
Già in tempi molto lontani Platone a riguardo dice:
Operare dei cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell’altro; chi sa far nascere l’amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando è di troppo.
Altri requisiti, inerenti alla proposta terapeutica, sono il setting, che si instaura per operare dei cambiamenti, e la richiesta di aiuto, la motivazione dell’utente che ad essa si approccia.
Il concetto di promozione della salute secondo l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, prendendo il via alla fine degli anni Cinquanta, attraversa numerosi programmi, tra i quali sia quelli legati alla prevenzione, sia quelli connessi all’educazione sanitaria, superando il concetto di prevenzione della malattia e associando altri interventi di tipo educativo sanitario e psico-educativo. Tradotto in termini di relazione di cura, nel caso della danza terapia, ma non solo, si creano due ambiti terapeutici:
- un intervento dedicato a un gruppo o a un singolo individuo portatore di una riconoscibile patologia o disturbo.
- un intervento dedicato a una popolazione “sana”, con fini psico-educativi, nell’ambito di un programma di promozione della salute.
La cura
La prima accezione utilizzata in merito alla parola cura è quella di prendersi cura, laddove con il termine cura si vuole intendere l’avere interesse umano per chi si ha di fronte, punto di riferimento dal quale partire per promuovere la salute e per aumentarne lo stato di benessere. Il prendersi cura appartiene, innanzi tutto, alla sfera del quotidiano e della reciprocità, riferibile a legami sociali ben precisi, come la parentela, il vicinato o l’amicizia. Quando l’azione di cura è attuata da una comunità, l’affettività assume il senso dell’appartenenza sociale e lo Stato ne è il garante, affinché “si tuteli la salute, come fondamentale diritto dell’individuo e come interesse della collettività”.[5]
La parola cura richiede di articolare concetti quali la salute, la malattia, la patologia e il benessere, dunque è lecito domandarsi cosa possa suggerire il modello medico riguardo alla cura.
Secondo il modello medico, la cura può essere considerata quel processo di transizione indotto fra uno stato di malattia e uno stato di salute, inteso come originario e precedente rispetto alla malattia. Considerando la salute come quello stato in cui l’organismo funziona “normalmente”, la malattia è intesa come una deviazione di tale funzionamento. Normalità, dunque, coincide con la salute, e questa è definita in un individuo ideale, caratterizzato da dati statistici, mentre la malattia o la patologia subentrano quando ci si allontana da questi dati.
La deviazione standard è un requisito, più o meno, escludente del modo singolo di essere nel mondo, dunque quanto più ci si approssima all’individuazione, meno pertinente diviene lo schema della campana di Gauss (o anche nota come curva degli errori). Basterebbe prendere degli esempi universalmente riconosciuti come Nijinskij, Artaud, Holderlin, Van Gogh, Graham, Stanislavskij, Leonardo, Michelangelo, e ci si troverebbe negli angoli più schiacciati del grafico a campana. Diventa necessario, quindi, fare riferimento a uno schema diverso da quello dell’individuo ideale, e forse, lo schema necessario è più vicino a quello greco del mondo degli dei, legato a quelle sfere in cui la malattia è sempre parte della vita, del modo di essere al mondo nella sua particolarità, sfuggente alle statistiche che garantiscono la normalità o la salute.
La descrizione dei sintomi come integrati al percorso della vita trovano base in James Hillman, psicologo statunitense, allievo di Carl Jung, per chi il criterio di salute è che ciò che è nascosto si esprima, in ultima istanza anche come sintomo, salute è intesa come sviluppo ed espressione della propria individualità, è il dispiegarsi del Sé, dell’insostituibile modo di essere al mondo. In questo caso, la malattia è la non espressione della propria singolarità, il mancato sviluppo dell’unicità e del proprio senso vitale, la negazione della propria vita, l’incapacità di svelare il proprio mito. L’elenco di persone illustri sopracitato, indica la malattia in persone di eccellenza straordinaria, ma ogni esistenza è insostituibile e straordinaria nella sua unicità, il che non dipende dal posto che un individuo occupa in un grafico statistico. “Non c’è vita, né porzione di vita indegna di essere vissuta”, dice il filosofo Martin Buber.
Oggi, in ogni modo, i criteri statistici di salute sono meno rigidi e più condiscendenti, accettano i sintomi a condizione che l’individuo riesca a lavorare e che le sue produzioni lavorative siano vendute, giacché l’inserimento nel mercato è considerato un criterio fondamentale di salute.
Restando nel campo medico, un salto abissale nel concetto di salute si presenta nella definizione di Nordenfelt, docente di bioetica, che sostiene che salute è “la capacità individuale di perseguire scopi vitali in circostanze normali, scopi necessari e sufficienti per raggiungere un grado minimo di felicità”.
Il DSM IV (manuale diagnostico statistico psichiatrico) porta in sé un concetto di normalità estremamente rigido e un’enorme quantità di disturbi e malattie psichiche che investono la quasi totalità della vita umana. Sicché ogni esistenza può trovare il suo modo deviato di essere al mondo, senza che si capisca quanto i concetti di deviato o malato siano utilizzati per emarginare i soggetti insani rispetto all’ideologia prevalente. Sano resta, dunque, sempre quell’individuo in grado di inserirsi produttivamente nella società di consumo.
Nella psicanalisi il sintomo è la manifestazione differita e indiretta di una verità dolorosa e traumatica. Piuttosto che affrontare un rapporto diretto con questa verità che genera malessere, il soggetto si tutela e impara a manifestare a se stesso questa verità in modo indiretto. Attraverso la psicanalisi, il soggetto dovrebbe essere capace di recuperare una via immediata e diretta per esprimere a se stesso quella verità: in sostanza la psicanalisi è un processo di ricerca ovvero una terapia di verità. (Lacan)
Nel lavoro danza terapeutico, come nella psicanalisi, la guarigione altro non è se non la comprensione del proprio male mediata dal corpo, alla quale ci si avvicina per vie diverse da quella del sintomo. Avvicinarsi a questa verità, alle sue immagini, dar loro una forma corporea per raccontarsi, prevenire il suo prepotente incarnarsi nel sintomo, dandole corpo in una forma passeggera, integrata in una storia accettabile e organica sono alla base del lavoro di danza terapia. Essa, dunque, esaurisce tutte le possibilità che il corpo ha di percorrere questa verità, cosicché il sintomo diventa l’ultima chance, l’ultima risorsa da utilizzare. Si giunge a essere tanto assetati di questa verità da integrare il sintomo, senza rifiuto, quando è il caso e quando esso si presenta. Accettare la verità è accettare ogni sintomo, un segnale posticipato di ciò che è contenuto nella propria nascita e che si esprime nel movimento creativo, o un segnale anticipato della propria morte. La guarigione, intesa come sparizione del sintomo, è solo un effetto secondario al ritrovamento di questa verità del soggetto. Prendendo la psicanalisi come riferimento, in quanto presa di coscienza che porta a un cambiamento profondo del soggetto, nel percorso di analisi gli effetti terapeutici sono collaterali.
Generalmente la richiesta degli utenti di danzaterapia non è tanto la guarigione di un sintomo, quanto la cura di sé: è il voler imparare ad aver cura dei propri stati, delle proprie emozioni, delle proprie immagini, dei movimenti. Tale richiesta deve essere raccolta e la cura divenire l’obiettivo generale, laddove diventa possibile lo sviluppo e la constatazione della possibilità di essere curati da se stessi, dal conduttore e dal gruppo. Il danza terapeuta accompagna il racconto corporeo, ciò che è detto con i movimenti corporei e che, forse, non è stato ancora messo in parole, o quel che non si potrà mai dire in parole, essendo ogni linguaggio insostituibile e complementare. Il terapeuta accompagna la catarsi, le proiezioni, le ripetizioni, le censure, fino alla rivelazione di un segreto, egli cura i fenomeni esattamente come sono, senza trattarli, né aspettare guarigione. Tutto in un setting parla del personale processo d’Individuazione, che è accolto con particolare cura.
In un setting attraversato da elementi artistici, è più evidente che la storia, i riferimenti, la preparazione culturale ricevuta, spesso arrivano da persone fuori dagli schemi. Curiosamente, inoltre, i brani musicali utilizzati nelle sedute DMT sono spesso composti da persone che non possiedono proprio i requisiti ideali di salute. Le note di Chopin o il ritmo di una zamba[6], per rimanere nella musica del ‘800 , infatti, possono stimolare un’esplorazione mirata a un oggettivo particolare, confermando, ancora una volta, l’apertura al numinoso che alcune persone affette da sintomi hanno portato e portano tuttora.
Quando si applica acriticamente il modello medico all’ambito della salute mentale, succede ciò che il filosofo Umberto Galimberti chiama “psicologia dell’adattamento”, cioè il modello medico applicato alla psicologia produce terapie mirate all’adattamento e all’integrazione, laddove l’omologare e l’integrare sono posti alla base della storia della scienza medica delle malattie mentali, fondata sull’esperienza giuridica dell’alienazione.
La danza è un’attività che attiva le funzioni integrative di gruppo e individuali. In se stessa attiva e rinforza le “funzioni basiche dell’Io” (come le chiama lo psicanalista Eduardo Fiorini), aumentando la loro influenza positiva sulle funzioni difensive, riuscendo a modificare le loro qualità e attivando le funzioni superiori di Integrazione, Organizzazione e Sintesi. Queste stimolano la capacità di integrare diverse sfaccettature della personalità, ampliando la creatività, la capacità ludica, riducendo la restrizione percettiva e stimolando la capacità immaginativa e di simbolizzazione. In altre parole, attraverso la pratica della danza, emergono elementi che spontaneamente promuovono istanze psicologiche di maggiore focalizzazione e integrazione di parti del Sé, e si giunge, verosimilmente, verso una maggiore percezione di benessere della persona. Questo implica una conseguente facilitazione nel campo relazionale, del rapportarsi dalle funzioni dell’Io alle funzioni dell’Io, ovvero, da adulto ad adulto, da soggetto a soggetto, da Sé a Sé.
La danza, dunque, promuove un benessere bio-psico sociale, giacché è da considerarsi un’attività che già dagli sciamani viene collegata alla guarigione. Quel che nasce spontaneo chiedersi, a questo punto, è quale sia stato il percorso della danza intesa in senso terapeutico e quali siano state le valenze terapeutiche riconosciute e applicate dagli anni ‘40 in maniera più sistematizzata nell’area della promozione della salute.
Alla luce di ognuna di queste ricerche e di questi studi si cerca di comprendere cosa rende un’azione terapeutica.
Nell’ambito di una proposta di danza accademica è nella tecnica che si trovano un’attivazione fisica aerobica e delle funzioni basiche, memoria, percezione, attenzione e autonomia crescente, con la conseguente attivazione delle funzioni integrative, che hanno valore terapeutico. Tuttavia non è questo che rende la danza una terapia. L’utente nella danza sperimenta soddisfazione e frustrazione in gradi diversi, però, si avvia verso un risultato estetico. Gli elementi in gioco sono, in entrambi i casi, l’attività corporeo-espressiva, le funzioni psichiche, la frustrazione-soddisfazione. Nella danza l’intenzione del conduttore e dell’utente si orienta sulla perfezione della prestazione. Attraverso l’insegnamento della danza, allora, probabilmente sono attivati una serie di promotori del benessere, ma questo non è il fine dell’intervento.
L’utilizzo che l’utente fa delle variabili spazio, tempo ed energia, conferisce una mappa attuale della singola persona, dei meccanismi di aggiustamento o di difesa presenti, delle energie libere da conflitti, rese disponibili, e delle possibilità di interventi in funzione di una migliore qualità di vita, di una convivenza armonica e consapevole con i propri complessi, le fissazioni, i ripetitivi errori, le angosce di base, i sintomi vitali insomma. L’intento è, dunque, quello di puntare a una convivenza armonica, produttiva, rilassata e creativa con i contenuti psichici e le immagini che cercano forma e iscrizione. La strategia necessaria è la facilitazione a condurre al fare corporeo, al rendere evidenti e coscienti le immagini che pulsano per incarnarsi.
L’intento è di prendersi cura del corpo e delle immagini e, quindi, anticipare con questo il loro incontro, lo sbarco delle immagini nella scena del corpo attraverso una via inoffensiva, senza nuocere. Con il gioco, con il fare finta, con la simulazione, con l’arte si esplora e si da alla psiche una via d’integrazione creativa in alternativa a ciò che James Hillman chiama la patologizzazione: la capacità autonoma della psiche di creare malattia, disordini e anormalità. Ciò avviene laddove la psiche esprime con arte morbosa e forzata, in modo essenziale, qualcosa che non potrebbe essere scritto in nessun altro modo, né con altro strumento che non sia il corpo.
La danza terapia richiede movimento, dinamicità, cambiamento e consapevolezza, amplificazione e convivenza armonica con le realtà dell’Anima[8], con i conflitti e l’Ombra[9]. Essa cerca di produrre non per vendersi o inserirsi nel mercato, ma perché essere creativi vuol dire poter creare rapporti più sciolti con ogni intollerabile verità, con ogni vitale patire, raggiungendo spontaneità e leggerezza nel perseguire gli scopi vitali, dispiegando il proprio senso vitale e quel mito, nascosto in ognuno, che rivela un finale sconosciuto al narratore.
Questa è la via per conoscere i contenuti interiori e prendersi cura dell’inventario d’immagini presenti nel momento in cui ci si muove, per conoscere e prendersi cura, senza vana fuga, della responsabilità del proprio individuarsi. Persino il sintomo altro non è che immagine incarnata, brani del mito scritti nel corpo, un rivelarsi del mondo immaginale, una metafora rigida, una poesia scomoda. Cecilia, una paziente affetta da tumore scrive: “ Come è rifiutabile il modo in cui ti mostri, Dio! Ma l’importante non è che tu sia accettabile, ma che ti mostri”.
Dentro l’afflizione c’è un complesso, dentro il complesso un archetipo, il quale a sua volta rimanda a un Dio. Le afflizioni indicano gli Dei.[10]
La cosa più vera è che in una seduta DMT siamo al servizio della psiche e delle sue immagini espresse nel movimento e nella forma. Conoscere i sintomi vitali, le afflizioni con le quali si convive, il modo di dare espressione alle dinamiche interne attraverso i gesti, i segni del patologizzare nella vita, si rendono consapevoli nel setting a diversi livelli e in un in crescendo d’accordo al tempo e la frequenza, e la costanza individuale e del gruppo. In ogni caso, la via della conoscenza è un lavoro interminabile, anzi è il tempo della rivelazione degli dei a essere eterno: la presa di coscienza, il conosci te stesso, è un lavoro arduo che non ha fine.
L’uomo, dunque, può arrivare a una consapevolezza del limite, dell’essere sospesi nel nulla e del proprio modo di vivere, giungere a quella sospensione in cui il mistero guida in modo creativo la propria individualità: mistero che non ha mai fine o che forse trova il suo termine dopo l’uomo.
L’accettazione della sofferenza, quindi, non è un subire passivo, ma è un assumere la condizione del limite, l’ineludibile.
Nella sofferenza siamo insostituibili perché siamo insostituibili nella morte di cui la sofferenza è un’anticipazione, in quanto sottrazione di vita, riduzione della sua espansività, suo ripiegamento. Come tale la sofferenza, oltre che evento fisico o psichico, di fronte al quale si arrestano la medicina e la psicanalisi con i loro rimedi, segnala la condizione ineludibile dell’umano. La condizione mortale. Qui la medicina e la psicanalisi sono impotenti, mentre la consapevolezza della condizione umana comincia a parlare come parlava la sapienza degli antichi Greci rivolgendosi all’uomo “mortale”. Per la consapevolezza della morte, la stessa di cui la sofferenza è l’avvisaglia, non soffriamo infatti solo del male fisico o psichico che ci tocca, ma soprattutto del suo segnale premonitore. Patire significa subire quel che non si può scegliere. Pazienza è l’arte di saper patire, è virtù riconosciuta nei pazienti, non tanto perché si attende la guarigione, quanto perché si è consapevoli di non poter evitare la propria sorte mortale.
Nel patire quel che non possiamo evitare, la sofferenza, ci mette in contatto con il nostro limite, anzi ci consegna al nostro limite che ci descrive come esseri sospesi sul nulla.
Può disperarsi solo chi ha sperato di poter superare il limite costitutivo dell’esistenza. Questa per i greci era la massima colpa che l’uomo potesse commettere, e la chiamarono hybris, tracotanza, pretesa di oltrepassare il limite, non riconoscere che tutto ciò che nell’esistenza si genera, in essa si dissolve.[11]
Se però la fenomenologia rimane pura prassi e non diventa uno statuto teorico, se ci si limita ad agire, ma si evita di pensare fenomenologicamente, cioè di comprendere le modalità umane (e non biologiche) di essere-nel-mondo, che sono poi quelle strutture trascendentali con cui l’uomo dischiude il tempo e lo spazio, non geometriche ma vissute, […] la fenomenologia resta puro atteggiamento, pura sovrabbondanza di dati, resi insignificanti proprio dalla loro disarticolata sovrabbondanza[12].
Gli utenti, infatti, sono accompagnati verso la consapevolezza del materiale ottenuto e del riconoscimento del proprio lamento verso gli altri, che di solito è chiamato critica. Centrale, infatti, è la rieducazione, la capacità di non proiettare. Per Jung la cosa più importante di una terapia è il riportare il paziente alla realtà e in particolare alla consapevolezza della sua situazione attuale, stabilendo legami con le situazioni attuali, con l’oggi, e prendendosi carico delle proprie immagini, evitando di proiettarle sugli altri o di eliminarle mediante una razionalizzazione. La danza terapia, però, non esaurisce le sue risorse nella catarsi, nello scaricare le pulsioni represse o conflittuali, ma nel connetterle a nuove rappresentazioni. Importante, dunque, è la consapevolezza, che non è un rinforzo razionalistico, cioè la spiegazione intellettuale di tutto, ciò che lo psichiatra Viktor Frankl chiama iper riflessione, ma è l’accostarsi al proprio mito, ai sensi da compiere, a ciò che del mistero è possibile sentire, percepire ed esprimere nel proprio modo di esistere al mondo: è la raison d’être, dove diventa fondamentale curare lo svolgersi del tempo e del mondo di questa ragione, curando il suo racconto.
[1] In collaborazione col Dott. Francesco Teatini
16 J. Hillman, Fuochi Blu, p.215
[3] J. Lacan, L’istanza della lettera dell’inconscio o la ragione dopo Freud, Scritti, vol.I, p.512
[4] Wilson I. B. et Al, 1995, Zucconi e Howell, 2003
[5] art. 32 della Costituzione
[6] Genere musicale del folklore argentino, sudamericano nato a Lima nel 1824.
[7] Chodorrow , Danzaterapia e psicologia del profondo, p.114
[8] Anima e Animus: personificazione di una natura femminile nell’inconscio dell’uomo e di una natura maschile nell’inconscio della donna, la cui funzione è di creare collegamenti tra la coscienza individuale e l’inconscio collettivo. L’anima è l’archetipo della vita.
[9] Ombra: Parte inferiore della personalità. La somma di tutte le disposizioni psichiche personali e collettive che, per la loro incompatibilità con la forma di vita scelta coscientemente non vengono vissute e formano parte nell’inconscio di una personalità parziale relativamente autonoma con tendenze contrarie.
[10] J. Hillman, Fuochi blu, pag. 219
[11] U. Galimberti, La casa di psiche, p.14, 15
[12] U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p.212
Immagine di copertina: dipinto di Paolo Troilo